Ieri c’era troppa attesa, al San Luca.
Un’ora e quaranta per un appuntamento delle 9.40, non cacciar palle, non è un accumularsi di visite lunghe, non è quel “può capitare” che mi somministri quando finalmente tocca a me. E hai la sfiga di una paziente che non le basta “Buongiorno, mi dica”. Ti sfilano sotto il naso tutti quegli altri, aderiscono al loro nome di “pazienti” con ossequio, forse hanno paura che non li visiti, che li freghi sulla diagnosi. Io invece te lo chiedo come entro: “Come mai un’ora e quaranta di ritardo?”
Tento il sorriso con il primo medico donna che mi abbia mai fatto un ecocardio, ma lei rimane nel suo décolleté già abbronzato, il piccolo solitario carezza l’andatura del busto mentre con la sonda scruta. Il solo gesto gentile è aver abbassato l’aria condizionata che sta bene sul suo camice lungo. Mentre io sono carta vetrata dai brividi. L’eco precedente, che le ho portato, non le è piaciuto, le foto sono poche e scadenti. Insomma ha deciso di essere spiacevole. E quel brillantino che mi ricorda quello indossato per le mie nozze non favorisce il minimo contatto.
Finché sono libera. Sto bene. Sto male come al solito. Il soffio mitralico che lei chiama “moderato” perché lieve non basta, guardi qui: mi ha mostrato il monitor. Io i monitor li guardo solo quando c’ho un pesce in pancia. E già fatico: il bimbo è sempre girato, sempre dispettoso. Comunque c’è questa lingua azzurra, quasi una bandiera: mi dice che quello è reflusso, è sangue che non dovrebbe stare lì. Invece io me ne vengo via che fischietto come un filo d’erba: questa valvola, io, me la porto alla tomba così com’è, vedrai.
Fuori dalla sua cella frigorifera aspetto il referto. Lo danno subito. Il che non ripaga il ritardo né l’antipatia, ma almeno non dovrò tornare.
Le sedie si sono liberate, sotto un manifesto sul crescere sani ci sono cinque corpi placidi che non s’incazzano quanto me per un tempo scippato. Una si è presa tutta la fila. Tutta con quei suoi occhietti da giocattolo, incerti e pieni di cose, di vita e di secoli.
– Compie cento anni domani. – Sua nipote sta dando l’annuncio a tutti. È per questo che ogni sguardo s’appiccica lì, su quel corpo piccino e secco, eppure perfetto. Le gambe asciutte, non una vena che pulsi gli anni, che spinga a fatica. Il volto buono, le guance riempite dal sorriso.
Ha sempre voluto fare di testa sua, la conosco così, in braccio a queste parole che addentano la stanza.
È il primo contatto che ho, che già me la rende amabile. Perché penso che
sono così anch’io, magari campo i suoi anni, tiro al 2072. Ci porto la mia valvola “moderata”.
Non ha la maschera per l’ossigeno, non ha una stampella. I capelli bianchi, gli occhiali, la dentatura allineata di quei supporti finti: non ha nulla in più, niente in meno, di una comune settantenne.
– E vivo da sola.
Mi sembra un po’ come un Dio, mi alzo, le chiedo se posso farle una foto. Poi chiacchieriamo, ci perdiamo in questi scambi. Le dico che sono una che s’incazza, avevo le palle girate per questa mattinata buttata via per colpa di un medico che non si è nemmeno scusato:
– Però adesso vedo lei, e mi è valsa la mattina, sa?
Negli occhi mi si mette una gioia buona, folle e ingenua.
– Posso stringerle la mano?
Così mi alzo, gliela stringo. Tocco quel piccolo secolo tutto chiuso in una vitiligine.
Sto per congedarmi, il mio referto è arrivato. Saluto tutti, le dico buon compleanno.
– Ma non mi ha fatto la foto…
– Ah, posso?
Vengo via con quell’immagine sul mio smartphone, coi suoi cent’anni oggi, le guerre che ha visto, il calamaio a scuola, la città che ha morsicato i campi e adesso digerisce a fatica grandi distese di cemento. L’arrivo della lavatrice, le automobili, dai primi telefoni a skype, la TV, e questo allungo finale in cui la tecnologia fuga ogni abitudine troppo in fretta.
Ho toccato cent’anni di storia, ho visto il Tempo: era seduto davanti a me. Gli ho stretto la mano.
Photo by Daria Nepriakhina on Unsplash
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