Allora un’altra sera abbiamo il consenso a una foto: ogni famiglia fa un selfie per salutare il figlio, carica l’immagine, la butta nel mare del gruppo. Il cellulare si riempie di foto di sconosciuti, genitori che incroci di sfuggita, gente che per la maggior parte nemmeno saluti. Adesso li hai in ciabatte e pigiama dentro al telefonino. Adesso li hai tutti. Solo che qualcuno era perplesso: oddio, e se poi il mio piccolo si emoziona troppo? Forse meglio non mandarla, la foto.
Ho rischiato di non salutare Sarah (per quanto staticamente) perché M. non voleva emozionare T.
Il desiderio conta più della paura
E così parti. Sono andata alla riunione, mi sono confusa con decine di genitori, culi impacciati su sedie minuscole. Ero l’unica che non sorrideva. Tu non lo sai, tu eri a casa coi nonni.
C’era il fermento di un mercato, voci da una bancarella all’altra, tutti e nessuno parlava. Nessuno ascoltava.
“Tu cosa porti?”
La gara non competitiva per preparare gli zaini
Letting go: la verità è che non sono d’accordo
E poi, mentre pedalo sulla mia stupida cyclette, cominciano a riaffiorare i ricordi. Al di là delle emozioni di cui già ho detto, riemergono tutte le considerazioni che maturai quando Patrick era stato a Malcesine con l’asilo per cinque giorni e cinque notti.
“Piange ma poi gli passa, è un’esperienza che aiuta a crescere.”
Ma è davvero necessario?
“Ma poi si diverte.”
Letting go
Mi dicono che vanno ad Andora. Non si sa quando, cinque giorni con l’asilo. Cinque giorni, cinque notti, cinque anni.
Non è obbligatorio, è una proposta di quelle che chiamano Scuola-Natura. Mi lanciano la notiziola quattro giorni fa, così, sulla soglia della classe, poi viene ripresa nell’assemblea che ho mancato. E adesso mi arriva un foglio: devo decidere entro stasera se “aderisco”, se mando Sarah.
Speravo di non dover scegliere.