Si potrebbe pensare che una plurimamma sia decisamente più esperta e accorta di una alle prime armi. Si potrebbe supporre, o si dà perfino per scontato, che ricordi ogni cosa necessaria all’accudimento di un bebè, che non abbia bisogno di rileggersi l’enciclopedia della puericultura, e che, in ogni caso, abbia sviluppato, con le maternità precedenti, un istinto acutissimo. Dicono anche – e ci lasciamo convincere – che “il parto si dimentica”, che è così che Madre Natura tutela il desiderio riproduttivo e facilita l’accoglienza della vita…
Niente di più falso. Non solo ricordo esattamente ogni contrazione, punto e ora di origine e fine ma, per uno strano fenomeno fisiologico, mentre si rammenta con precisione il travaglio, si dimentica tutto ciò che ruota intorno alle tappe evolutive del piccolo. E se le emozioni si incollano ai visceri, scendono nei sotterranei del cuore, nel luogo più profondo e salvo alle insidie del Padre Tempo, la parte “tecnica” per così dire, ovvero età e successione dei piccoli e grandi traguardi, viene regolarmente fagocitata da una sorta di Alzheimer genitoriale.
Quando iniziano a vedere correttamente? Quando cominciano a voltarsi per un suono? E a sorridere? Fare i versetti, toccarsi le manine? Girarsi a pancia sotto? E stare seduti?
Non fosse per i quaderni in cui ho appuntato con cura ogni conquista (dalle prime notti intere al primo dentino, a quella volta che…), non saprei rispondere ad alcuna di queste domande che, pure, cavalcavo con disinvoltura al figlio precedente.
L’ignoranza prodotta da tale oblio è forse più grave del confronto generato dalla rilettura zelante dei quaderni degli altri, e produce effetti che vanno da una semplice curiosità a una preoccupazione spiccata. Peggio di tutto, però, è quando la lettura, anziché accurata, è stata distratta: quando Isabelle non aveva ancora due mesi ho rischiato le notti insonni chiedendomi perché mai non si voltasse al mio richiamo come faceva la sorella.
“Non sente…” avanzo timida di fronte alla pediatra. Quella mi rassicura, “aspetti”, come avesse in mano il barbatrucco che in un batter d’occhio scioglierà le mie sciocche paure. Arriva con un sonaglietto che a malapena lo sentivo io. Lo accosta all’orecchio destro della piccina: niente. Al sinistro: nulla.
Forse neanche lei conosce il “tappetario” a memoria (che, a dispetto del nome, non è un negozio di tappeti ma uno schema più o meno flessibile sulle tappe evolutive che ci permetta un minimo di conoscenza di base), e lascia sfumare la questione con il piccolo suggerimento di osservare la bambina mentre dorme: se sobbalza ai forti rumori, allora non è sorda. Fantastico.
Solo parecchi giorni più tardi, rileggendo gli appunti su Sarah, scopro che lei si voltava alla mia voce alla veneranda età di tre mesi.
Eppure, avere un minimo di nozioni o di ricordi, talvolta si rivela alquanto necessario: sarà bello scoprire, senza preavviso, che la piccola improvvisamente sorride, che porta le cose alla bocca, che ha imparato a girarsi… ma è pur doveroso chiedersi fino a quale età è ancora sicuro abbandonarla sul divano mentre si va in bagno.
Ricordo quella volta che, in un’enorme aula ad anfiteatro, seguivo col mio ragazzo di allora una lezione di ingegneria: i suoi amici suggerirono “fai prendere appunti a lei”. La ragione era semplice: “Non capendoci niente segnerà tutto. Starà più attenta di noi.”
Forse è per questo che una madre al primo figlio, alla fine, una bimba di tre mesi non se la sarebbe mai ritrovata così… nel tempo fugace di fare pipì!