“Comunque… noi non ci pensiamo mai, siamo eccitati e sereni, ma in effetti… non è mica detto che vada sempre tutto bene. In verità dobbiamo esserne grati.”
“Io ci penso, invece.”
Seguo Mathias giù per le scale di marmo, la borsa in spalla, la cartelletta con l’ecografia appena fatta sotto braccio. Patrick ha trovato il corrimano, su cui far correre quella Mercedes blu scura che aveva in tasca. Per poco non l’ha dimenticata sul tavolo del dottore. Sarah lo imita, con la sua Cinquecento rossa senza una gomma.
Sono venuti con noi, li portiamo spesso. Il medico era gentile e alla mano, li ho pregati di stare buoni, ma quello ribatte “qui decido io, non la mamma, e potete fare casino.” Loro sono rimasti interdetti, poi si sono incollati a quella frase, “fare casino”, gli è piaciuta, se la sono portati dietro per giorni.
Ha disegnato un bambino col gel sulla mia pancia: “Volete vedere il bambino? Ecco: gli occhi, la bocca… E i capelli? È un maschio o una femmina? Femmina, dite? Allora ci vanno i capelli lunghi.”
Io sorrido sotto quei vermiciattoli freddi. Penso solo a cercare la conferma del sesso. Penso solo al mal di stomaco che da due giorni mi attanaglia. Penso a oggi pomeriggio, che mi faccio un bel sonnellino.
È tutto a posto, mi asciugo, mi vesto, salutiamo. Dopo tre piani di scale per scendere all’uscita, mi raggiunge quel pensiero, come una rivelazione: “Siamo fortunati, però. Non è scontato che tutto vada bene.”
E così ritorno a quella volta, più di cinque anni fa: una sera ridicola, goffa a ripensarci, perché sul mio divano giallo, seduta a stendere le gambe, stavo tranquilla nella nostra mansarda, e la vita era perfetta.
Mathias rientrò con tre piccole cose: due erano le mie colleghe che, a sorpresa, venivano a trovarmi. La terza era un foglio.
Lo apro per leggere i risultati degli ultimi esami del sangue, lo apro come si apre un resoconto già noto, una scorsa veloce, gli occhi che lisciano quell’A4, registrano che non ci sono segni di “infrazione”, richiudono quell’istante come una breve partentesi quasi scocciante. Invece c’è un asterisco, un minuscolo intruso, che contrassegna il valore dell’alfa-feto-proteina. E la sera si accartoccia. Goffa. Incapace di reggersi in piedi. Una vecchia ubriaca che barcolla.
Chiacchieravo con le amiche, poi un piede mi finiva nel gorgo. Mi fermavo. Respiravo. Volevo che se ne andassero, per potermi gettare su internet, a elemosinare una giustificazione, una rassicurazione a quel valore ingombrante. Volevo che restassero, lì, così, per sempre, per non lasciarmi il tempo di abbandonarmi alle ricerche.
La serata finì, le amiche si congedarono.
“Spina bifida”, “problemi al tubo neurale”: ricordavo stracci di testi letti in precedenza.
Mi metto a cercare. Mathias cerca anche lui: “Spina bifida, difetti del tubo neurale, morte del feto” è tutto ciò che troviamo.
Chiamai la dottoressa appena possibile. La dottoressa mi fece fissare un’ecografia di secondo livello. Così feci: l’appuntamento era dopo otto giorni.
I miei sono premurosi: “Dimmi se hai bisogno di qualcosa” mi dice mia madre al telefono.
La loro vicinanza mi nutre ma, intanto, mi spaventa. Pare un morbido filo caldo che segna il tracciato di un luogo drammatico.
Fuori arrivava la primavera di marzo. Dentro, ogni stagione restava sospesa.
La paura andava e veniva. In certi istanti soccombevo.
Cammino in modo diverso: il baricentro – si legge sui libri – si spinge indietro per il pancione. Io, invece, mi chino in avanti, quasi mi vergognassi.
Non faccio più di tutto per mostrare la pancia: tendo a nasconderla, in questi giorni. Resto dimessa, in penombra, incerta con lei, nella vita insicura che porto dentro. Che un numero di laboratorio tiene appesa, nel mio vissuto, a un filo. A un’opinione, un’interpretazione medica.
Che il ping-pong del mio desiderio fiducioso con la paura, accende e spegne.
Dà e toglie vita al mio bambino, quasi fosse un Dio.
In altri momenti c’era una naturale ripresa, forse ero stanca di quella paura. Forse ero solo realista: un numero, un numero solo, non poteva ancora rovesciare una vita.
Arrivò la vigilia: Un giorno. Mi immagino una scatola: questo giorno è come una scatola – penso. Ci sto dentro con tutto ciò che posso e non guardo a domani. Non guardo avanti. Ciò che c’è dietro è già nella scatola. Ci sto dentro e non esco. Vivo il momento.
Come in tutte le situazioni particolari e intense, ci sono già delle canzoni che ritornano, che mi piacciono, e le metto, e mi ritrovo a cercarle nel silenzio di casa, nella testa. Canto incerta col pensiero, la voce stenta. Le rimetto su. E finisce che queste canzoni e questi giorni si sposano.
Una è “Back to black” di Amy Winehouse. L’altra è “Always everywhere” di K’s Choice. Con la prima, pochi giorni fa, ci siamo messi a ballare: io e il mio bambino vicino e lontano. Una mano teneva la pancia accarezzandolo. L’altra stava alzata, si muoveva nell’aria, mentre cullavo il bacino, dondolavo piano, e in quei momenti diventavi “tu” perché avevo stabilito spontaneamente un contatto così vivo da riconoscerti. Mi chiedo se mi hai sentito come io ti sentivo, più spiritualmente, amorevolmente, infinitamente, che col corpo fisico.
Stamattina, invece, ho messo su l’altra canzone, ma è come fosse lei che ha cercato me. Andrà sul cd che ho intenzione di prepararti per cullarti, in pancia e dopo, quando sarai nato: sto già pensando ai pezzi, e questa è dolcissima e parla della mamma. Perciò è perfetta.
Ma oggi ho fatto una cosa speciale per starti vicino e per star vicina a me: testo alla mano, avanti e indietro, pause e play, mi sono messa a studiare la canzone e a cantarla. La voce era incerta perché non la sa ancora bene, ma nelle righe che ho già imparato meglio mi lasciavo cantare con voce piena. Questo è il mio regalo per noi due, oggi.
Presto comincerai a sentire davvero la mia voce: per questo inizio a preparare, per te, le canzoni più belle.
Sta tornando il sole, dopo giorni e giorni di grigio. So che è di buon auspicio.
Domani sarà un giorno di festa.
Io piango ancora, ancora adesso, quando ascolto queste canzoni.
Patrick ha cinque anni, sta bene. Ma la gioia non arrivò subito, quel dodici marzo: ci volle il crollo, prima, i nervi che dovevano poter cedere. Poi la verità buona salì a galla, mi venne a prendere come una scialuppa di salvataggio. E il mondo si spalancò di nuovo.