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Maternità

A me bastava qualche ora

E POI BUTTARSI UNA SULL’ALTRA E AVERE ANCORA “NOI”

 

Succede il martedì, il primo giorno che resti a mangiare. Succede che il tempo non si è preparato, io lascio l’asilo, sorridiamo ancora, ho quella piccola tensione della prima giornata vera per te, della prima giornata vuota di te, il tavolo che mi aspetterà a pranzo, come quando abitavo il quel monolocale sui navigli, come quando? Quanto devo tornare indietro per mangiare senza nessuna posata che faccia eco alle mie?

Il tempo non è pronto, prima mi spinge a casa, le stesse beole che ho calpestato milioni di volte, che anche in queste mattine nuove sono rimaste lì, belle incastonate nelle loro geometrie, oggi barcollano. Poi di colpo non aveva più fiato. È rimasto immobile davanti allo specchio all’ingresso, quello dove meno di dieci minuti prima c’infilavamo le scarpe. Entrare in casa e poi chiudere la porta. Improvvisamente il tempo allagava tutto.

Il tuo succo rimasto a metà sul tavolo della cucina, il passeggino che ormai non usiamo più, il davanzale provato da troppi fogli, da portapenne senza criterio né tappi, né punte alle matite.

Ci siamo guardati in faccia e di colpo ho capito: che io lo voglia o no, questo è il mio nuovo tempo. E mi è sembrato smisurato.

Smisurato, bambina mia, perché a me bastava qualche ora, il mattino presto mentre tu ancora dormivi. Qualche appunto durante la giornata, quando salpi per le tue avventure. Qualche momento nel fine settimana. Non sei di alcun disturbo, sarebbe come dire che è fastidioso il sole, il mare, un bosco. Sono dovuta tornare molto indietro, negli anni, riesumare quando portavo i tuoi fratelli all’asilo e tu eri un piccolo tumulto in un carrycot rosso. Ecco, non farei a cambio. Quella responsabilità assoluta era una forma aspra di solitudine. Questa volta sono libera.

È la libertà che mi ha gongolato come un’idiota per un’intera settimana. Portarti avanti e indietro dall’asilo nel periodo dell’inserimento è stato eccitante: avevo qualche spazio in più, e non perdevo nulla.

È la novità, la grande rete che tiene i capelli. L’elastico della curiosità.

I primi giorni sono il tuo sorriso, tua madre che si diverte a vederti in un nuovo contesto, si affaccia a quel quadretto pittoresco di te tra altre ventiquattro testoline, ognuna con quella follia d’amore che hanno solo i bambini. Per una settimana l’asilo è stato soltanto questo: cambiare inquadratura.

Ma adesso le ore sono tante, le passo aspettando, le passo sotto l’occhio malevolo di un orologio che dice a quest’ora la staresti svegliando, a quest’ora andresti a spasso con lei. Le passo come i vecchi. Me lo concedo. Non me ne frega niente dei perbenismi dei sentimenti, tanto quelli sono teste calde, li lascio bollire, sono fiaccata da questi mesi, non sono un grande fusto di madre, ormai, somiglio a un bonsai.

Il pranzo, il primo pranzo da sola non mangio. Alle dodici ho consumato tutto quello che sento, prendo lo straccio della polvere, comincio a calarmi nel ruolo della massaia. Aspetto l’aspirapolvere, perché quella ha più grinta di un cazzo di cencio sfilacciato. Con quella sfoghi tutto quanto. E poi ero stufa del silenzio.

Il silenzio è una granata, dentro, quando non sei più abituata.

Sudo. Come quando faccio la cyclette. Faccio fuori qualche tossina, poi l’orologio decide di prendermi in giro, io che volevo farmi beffa del tempo, quello si mette a correre e in qualche modo sono già le due meno un quarto. Cavoli avrei giurato di essere là per prima, al cancelletto. Come quelle madri che biasimo, che per anni ho pensato ma se sei così impaziente ma perché non te lo tieni a casa, il piccolo?, ché l’asilo mica è obbligatorio. E invece arrivo in volata, in chiusura, quasi. Tu non mi vedi nemmeno, sei occupata a farti superare da venti amichetti sullo scivolo. Passiamo dal parco giochi, scarto il mio pasto, una barretta di quelle dietetiche che dovrei abolire visto il mio basso peso. È che se non hai fame dentro quelle c’hanno un tripudio di vitamine e minerali, meglio che fingere un pranzo con una fila di biscotti.

Sono cinque minuti. Cinque sono finiti nel prenderti a scuola, cinque per il parchetto, cinque per arrivare a casa, levare i sandali, lavarci le mani, “ti metto un cartone ma solo uno piccolo.” Ed era già ora di metterti a nanna.

Ti sveglierò, correremo a prendere Patrick e Sarah a scuola. E poi saremo: nel folto. Come là quando prendo loro, così a casa. Non resta niente per noi, per noi due sole, esclusive. Solo gli interstizi, i tempi di servizio. Prepararsi al mattino, andare, tornare.

Non me l’aspettavo. Non l’avevo messo in conto. Non è così che doveva essere. Doveva essere che tu cominci una nuova avventura e io pure, a modo mio. E poi ci buttiamo una sull’altra e abbiamo ancora “noi”. Che una cosa non esclude l’altra, l’asilo e “noi due.”

È questo, che mi manca, che non ha più spazio. E lo capirò stasera, mentre sfoglio il perché di tanta amarezza. Tuo padre che ascolta e poi dice dovevamo metterla in uno privato dove scegli le ore. Ed è una grandissima cazzata. Detta con grandissimo cuore.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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Commenti 2

  1. mammaorachefaccio

    Hai espresso perfettamente, senza retorica o pretese, delle sensazioni in cui mi sono ritrovata. Il potere della scrittura :’) quanto ti capisco…e quanto mi sento capita 🙂 …anche nel finale del post! ahah

    1. Post
      Author
      Maddalena Capra Lebout

      Mi fa tanto piacere che tu ti sia ritrovata ed egoisticamente mi aiuta a sentirmi meno “strana”, mettiamola così. Tutto sommato ho smesso di vergognarmi di essere così sentimentale nei confronti dei figli. Tutto sommato ho passato 9 anni e più a occuparmi di loro, e loro hanno occupato ogni mio tempo, e una parte inverosimilmente enorme di cuore. Tutto sommato una madre ha il diritto di lasciare che separarsi un po’ sia anche doloroso. E di dirlo, se vuole. Grazie!

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