Com’era vestito? Una polo, forse, qualcosa di azzurro. Un paio di braghe al ginocchio, sotto quel piccolo tavolo quadrato apparecchiato a specchio: le sue grandi mani, di qua, due gemelle minuscole, dalla parte opposta.
Il bambino sbucava appena, la sua testa rotonda. Nemmeno lui. Non so come fosse vestito. Li ho guardati per tutto quanto il tempo di una cena improvvisa e non ricordo. Siamo capitatati in pizzeria come si capita in mezzo alle bancarelle di una via quando è giorno di mercato e non sapevi.
Andiamo a prendere papà in ufficio. L’anno scorso siamo saliti in grembo a un autobus arancione più o meno in questi giorni, quando sapevo che lì dove lui lavora, tra quelle pareti sverginate appena da piccole stampe in bianco e nero, non c’era il capo, la donna per la quale lavoravo anch’io, prima di svignarmela. Quest’anno va facile, è invecchiata anche lei, adesso è in pensione, me la immagino accosciata dietro qualche gingillo infantile, diventare tutta una schiuma stupida e mollare quei tailleur che comunque non la slanciavano, dietro alla nipotina che la figlia le darà senz’altro in prestito per venire a calcare la stessa scena, negli stessi uffici.
Così Andiamo, bambini…, due si animano come marionette, la terza spara a salve uno dei suoi no cui non voglio più credere, i no li piscia come i cani, marca il territorio: la fregatura è che io devo starci dentro, a quel suo stillicidio. Invece poi mi riesuma una gonna che solo per Despacito, una sera che tirava aria nuova, se l’era messa e poi era andata in bagno sei volte per l’emozione di quel suo saggio privato per noi quattro allineati su un divano sudato.
L’autobus era arancione, mi merito non so perché qualcosa: “Mamma se è a-ncione ti do una caramella”, Sarah si becca l’annaffiata di qualche complimento, la sua gonnella e i brillantini magnetizzano al di là dei giorni da cui non si lava, capelli inclusi. Isabelle trotterella appesa a quel manico come un manubrio, Patrick è serio come nemmeno l’autista. È un buon tempo, peccato non fargli la sorpresa, al papà, è che gliel’ho dovuto dire, prendi la macchina. Se no per tornare mi toccava aggrappare tre figli alla canna della sua bici. O alla mia pazienza su un altro bus.
E si scoppietta. Siamo una di quelle famiglie che vedi e che gli altri dicono ai figli: “Li vedi quelli? Sono in tre e tutti bravi, smetti di fare i capricci!” Oggi all’Ikea è stato così.
Noi siamo quelli: che sul bus la vecchia signora adesca da larghe maniche di una tunica sgargiante. Chissà, è la tunica, forse, o quegli orecchini dello stesso arancio, Sarah diventa un pallore di marmo, riesce a restare immobile, gira le pupille e poi le accovaccia nelle mie. Va bene, intercedo, raccolgo i complimenti come monetine col mio cappello di garbo lusingato, il sorriso che ha una sola velatura: “Penseranno come fa sta donna ad avere figli così belli?”
Noi siamo quelli.
Nella gelateria e sulle grate del marciapiede a scrutare se qui sotto passa il metro? Si va in Mondadori, si schiaccia litigando dieci volte il tasto di quella supposta vetrata che porta ai piani, fin su, dove si affiancano i balconi degli altri, e mamma non ci era più stata, e non è vero che l’avevo vista la passerella, va’ che non c’ero.
– Ma sì.
– No, sarà stata una volta coi bambini che io ero a yoga.
Davanti alla cameriera che ci illustra il nuovo bistrot scherziamo sull’amante. Leggiamo libri, facciamo selfie ai cellulari.
E poi la sera è giovane ed è venerdì. Siamo quello che sembriamo, come le coppie che si trovano per un aperitivo e poi l’aperitivo allunga le ore fino a cena e poi.
Scegliamo una pizzeria dalla pizza buona e gli spazi enormi, gremiti, un fitto in sale inanellate, fino al piano di sopra, sulle tovaglie coi tovaglioli rosso vino. Noi siamo quelli che sembriamo tranne una.
Di che colore era vestito? Aspettano qualcuno, dice alla cameriera, quindi uniamo i tavoli. Quella sorride, i capelli all’henné stretti in una coda insicura. Padre e figlio. Fuori a cena, lui l’ha appena preso, è il weekend che tocca a lui. Per adeguarsi ha rinunciato al boccale, beve a sorsi composti da un grande bicchiere di coca, divide la pizza, vuole essere un buon padre. Non alza la voce, il bimbo è sereno, però manca qualcosa, si toccano poco, hanno quelle dita sulla tovaglia, orlano i piatti, si ungono nella pizza a metà. Aspettano la nuova compagna di lui e la figlia. Invece delle due donne che arrivano nessuna lo bacia, una è troppo giovane, l’altra è di spalle. Il bambino si tuffa in sciocche moine con la giovane che è accanto, lei lo insegue in intimità che non sanno di ordinario, ogni due gesti si stira le ciocche ai lati di una riga in mezzo alla testa liscia, perfetta, li tende perché con l’umido non si scompongano, o per coprire orecchie che stonerebbero con la bellezza che sa di possedere. L’altra è una schiena robusta e due spalline stabili che non lasciano niente sulla scena. Il piccolo scivola via, va finalmente a espugnare la fortezza del padre. E in quelle due figure qualcosa ritorna a comporsi: loro due. Quello che possono. Quello che ognuno ritaglia tra gli errori.
Forse credevi anche tu di fare bene. Ti sei svegliato ogni mattina pieno di buoni propositi, radevi le cazzate insieme a quell’ispido lascito della notte. Pensavi di fare bene, come tutti. C’hai addosso l’orgoglio che ti fa da grasso di balena, su quello ci scivola tutto. Poi piano piano hai cominciato a seccare, squamarti. Perché è così che va. Stringi il cuore nella cinghia all’inizio, poi ti assesti: è lì che quello inizia a sputare, traballa come un dente da latte.
E adesso siedi qui con due donne che-chissà-chi-sono. I sensi di colpa li hai addestrati, vengono dal lunedì al giovedì, ti salvi il culo nel fine settimana.
Qual è il tuo buco, la termite che ti fa il canale nelle ossa? Lo penso mentre lo sguardo è sceso sulle sue scarpe da passeggio. Mentre mia figlia di sette anni è fuori col papà perché la sua fetta di pizza non si chiudeva e tanto bastava. A farle quella gradine nelle membra, che la scuote come una sciagura.
Anche tu. Hai quelle bestie da scontare.
Commenti 5
Sono in treno, ti leggo e mi incanto come sempre.
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Ciao bella! Mi fa piacere “incantarti”, e anche sentirti! Un abbraccio (afoso) :*
Sempre forti i tuoi pezzi, arrivano dentro come sassi gettati in uno stagno. Meglio se li leggo quando sono più forte
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Mi spiace, i pezzi seguono la vita, soprattutto quella interiore, e quindi suonano, urlano, bisbigliano. Secondo i casi. Un abbraccio!
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