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Maternità

Invece

MATHIAS RITORNA. DOPO CINQUE MINUTI. PATRICK È CADUTO IN BICI

 

Avrei portato Isabelle all’asilo. Le avrei baciato la guancia dove si ferma e diventa rossa nelle labbra. Sarei venuta via, il solito vialetto percosso da tante solitudini oggi mi avrebbe sorriso in questo cielo secco, maestoso, che pare settembre. L’avrei seguito fin dove si butta in strada ripetendomi ricordati la sacchetta e le scarpe, quando vai a prenderla.

È l’ultima mattina, l’ultimo giorno di scuola materna.

La solitudine ha una sua gradazione alcolica, non puoi mica berla a barili,

non sto bene in quelle vasche di un anno. E invece vedi che a piccoli sorsi diventa indispensabile.

Avrei sanato quei due capitoli che non mi convincono. E poi saranno figli, e poi sarà una sera con lui, loro dai nonni per una notte programmata da settimane.

Invece Mathias ritorna. Dopo cinque minuti. Ha portato Patrick e Sarah ai rispettivi centri estivi, Isabelle dorme ancora, sto frugando Facebook, lo sento, cosa fai, cos’hai dimenticato?

Me lo dice con fermezza, saprò solo dopo che anche a lui è preso un brivido di lava bollente:

Patrick è caduto in bici. Si è spaccato i denti.

Adesso entra, mio figlio. È lui, sta bene. Sono immobile. Gli apro la bocca, un dente è raso quasi del tutto, l’altro è spezzato, gli manca un grande angolo. È un angelo piccolo che torna indietro nel tempo, a quando perse quei denti da latte, ai topolini che arrivavano a frugare il bicchiere sul comodino. Quale fatina potrebbe mai venire per questi denti adulti?

È deturpato da quei buchi, da quel sorriso rotto. Mathias lo porta in ospedale. Oggi, che è un anno esatto dal ricovero di Sarah. Lo zaino con i panini per il parco resta qui. Lui, così bello. Come si fa, se ci costerà, se è rimediabile. La mia ultima mattina. Era questa. Ho dato mercoledì a Sarah, giovedì a Patrick, contavo su oggi. La rabbia scova un piccolo varco nel turbamento.

Sono irreale. Tutto è irreale. I rumori se ne vanno. Se ne va il mio corpo, i miei piedi non sono di nessuno.

Quando la sveglio, Isabelle non ci crede, ma sul serio, ma per davvero? mi chiede.

È un passo rapido, vado, saluto la maestra, le faccio due parole, mi vede, che sto come una goccia sui vetri, ci congediamo nel caso non vada io a riprendere la piccola. Isabelle mi fiuta, oggi mi dà più baci del solito, appena la voce sta per cadere la sua bocca mi tira su con una ghirlanda di tocchetti umidi, fa tutto il giro della mia.

Scendo per il viale. Per quel viale che oggi mi aspettavo buono. C’è un caffè inghiottito, il solo spartiacque, un quaderno che butto in borsa. Loro tornano, al San Carlo gli han detto di andare al San Paolo: – Non ci hanno fatto niente.

Ci vuole un bel pezzo di tempo per arrivare lì, Patrick ha una garza che s’inzuppa, ci sbava come un bebè che mette i denti, come un vecchio senza controllo. Non ha il coraggio di deglutire, non parla, biascica. Il San Paolo è un groviglio di ingressi, abbiamo sbagliato di certo, ci ritroviamo in catacombe che non portano a niente, chiediamo, dovete scendere di un piano, l’ascensore è rotto, l’altro non arriva, le scale sbucano cieche in un imbuto dove due ragazzi fanno la pausa del mattino coi loro bicchierini di caffè. Alla fine arriviamo. Però la sala è un esercito di corpi, chi è seduto, chi in piedi, altri lunghi sulle barelle. Saranno almeno quaranta, il cartello luminescente lampeggia il suo monito: emergenza in corso, le procedure subiranno un rallentamento.

È un frullare di corpi e di voci, e poi di motori, di strade che adesso si ustionano al sole, di attese, di cellulari che centellinano batterie residue mentre affollo ricerche.

Al Policlinico avevano risposto subito al telefono, ho ingenuamente creduto che non ci fosse nessuno, dai andiamo lì, la sala linda, noi, due medici che sembra privato. Invece è un altro bosco fitto, ci vanno anche i pazienti comuni che devono fare un’ablazione del tartaro. Qui ho un figlio che ormai non deglutisce, non beve e non mangia da quattro ore.

– Signora, se non c’è sangue non è considerata urgenza.

La donna della guardiola sembra rude, ci sbologna così. Sediamo, guardo una bimba di colore coi suoi orecchini che ballano su lobi minuscoli, guardo quelli che continuano a entrare, la ventola indispettisce i fogli nella guardiola, la donna li raccoglie, estrae un plico di fotocopie che vietano i cellulari, le incolla lamentandosi che c’è sempre chi le toglie.

Invece è una buona donna. Perché in ogni incrocio dannato dalla sfiga puoi giurarci che c’è un piccolo Cristo, una Madonna che un po’ ti salva.

Quella ci dice bussate ai medici, anche se non si dovrebbe, bussate, chiedete, fate vedere il bambino. Poi mi vede che non oso, allora viene lei, fa il codice che conosce, s’infila dentro. Quando esce si scuserà: – Mi dicono che sono io che sono agitata, Signora. Eh… io ci ho provato, mi spiace.

Quante ore d’attesa ci sono, ancora? Do il mio numerino di carta a un ragazzo indiano. Il rullo dei biglietti è finito, tieni, ragazzo, è il tuo giorno fortunato.

– Mi hanno appena dato uno prima del tuo – mi mostra il suo 49 contro il mio 52. Allora prende il mio, lo pinza nel coperchio nella macchinetta che adesso hanno ricaricato, insieme a un altro ticket che gli hanno offerto, così restituisce il favore ai prossimi che verranno.

– Sei un bravo ragazzo – gli dico. Gli tocco il braccio e sorrido. Torno di là, nella nicchia gremita dove il ventilatore sputava sui fogli della guardiola che adesso è vuota. La donna è in piedi, tocco anche lei: – Ce ne andiamo. Mio marito ha trovato un posto allo Stomatologico, in Via Pace.

Si scusa ancora. Il suo accento del sud ha un nonsoché di brusco che stona col suo garbo.

– No, Signora. Sono solo venuta a ringraziarla.
– Eh, Signora, di più non potevo fare.
– Ha fatto più di quanto poteva.

Finisce in quel grande tempio cavo e lucido, ci vedono subito, fanno le lastre. La polpa è intatta, la radice non è rotta, i denti sono vivi. Vanno rivisti, dopo un trauma potrebbero sempre morire. Ci aspettano sabato prossimo, Patrick è docile, si lascia fare, non ha spaventi nel corpo, in quella sua schiena alata e secca, sempre un po’ uncinata dal suo incessante scrivere, dalla sua gracilità alla vita. Si è voluto vedere, non ha detto niente. Adesso vuole una brioche, ha fame, è l’una e mezzo. Mangiamo sulla terrazza al settimo piano, sono morsi che lo deludono, fatiche che lo provocano, la molla lì, piange, s’incazza. Io ho chiamato mia madre. È lei, che va a prendere Isabelle. Quel vialetto e quel ritorno, quello snodo.

È sua la mano di mia figlia, il sorriso del primo anno finito. Quella sacchetta che ritorna.

Anche la serata se ne andrà. Siamo sfiniti. Il pavé ci macina mentre guardo la Darsena, mentre passiamo sotto la casa che fu la mia di un tempo. Si mescola lo spavento non ancora smaltito, il rimpianto per la mia mattina, per l’ultimo giorno d’asilo. La rabbia, il dolore. C’è il cuore che lo chiamano da tutte le parti: non sa più dove andare.

– Volevo portarti in qualche posto speciale.
– Volevo andare a Vigevano – gli dico.

Invece non è rimasto niente.

– Li mandiamo un’altra volta, dai nonni.

Ho bisogno di normalità. Essere sola con Mathias, stasera, sa di spreco. Mi ricorda solo quello che è andato storto. Mettiamoci a tavola, facciamo una pasta scotta, voglio gli spazzolini allineati sul lavandino, voglio i capelli di Isabelle che mi sudano sulla spalla, voglio i loro letti gonfi di piccoli corpi e grandi sogni. Voglio dimenticare come doveva essere oggi, quello che ho perso. Voglio non volere niente.

 

Photo by Simon Buchou on Unsplash

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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Commenti 6

  1. Piccole Mamme Crescono

    Il mio primo commento a metà lettura? “E che caxxo!”. Dio buono, ultimamente è dura. Posso solo immaginare lo spavento, il dispiacere, la rabbia. Solo immaginarlo mette il cuore in agitazione, figurarsi a viverlo. Mi spiace Madda, e da qui non posso far altro che abbracciarti virtualmente.

    1. Post
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      Maddalena Capra Lebout

      Io invece sai cosa pensavo? Sai tutti i miei proselitismi sul lasciar correre i bambini, non dire “guarda che cadi” etc…? Ho pensato sti c., d’ora in poi fermi seduti! 😀 Lo spavento è stato per l’irreversibilità dei denti, adesso bisogna aspettare e vedere se restan vivi, poi gli faranno una ricostruzione temporanea, per quella definitiva bisogna aspettare che il bambino abbia concluso la crescita. E poi son soldi, tempi… Fortuna che lui sta bene, non l’ho visto nemmeno spaventato. Quanto alla sfiga perdurante da mesi bisogna che non tenga il conto, mi sfogo e poi riparto. Grazie Diana, un bacio.

  2. Silvia Fanio

    Mi dispiace davvero molto.
    Coraggio, il sorriso del tuo bambino tornerà come nuovo ed avrete un’altra sera solo per voi. La cosa che conta è che non sia successo di peggio. Immagino lo spavento… Vedrai che ci scherzerete su presto Un abbraccio grande!

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      Maddalena Capra Lebout

      Grazie Silvia, comunque il nostro piccolo eroe stamattina è andato all’oratorio estivo in bici! Ragazzo coraggioso. E’ che è sempre un po’ maldestro, questo sì, deve fare più attenzione. Un bacio.

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