Escono, vanno a Cesano. Sento la macchina che gratta la corte. Immagino i bambini domandare “la mamma non viene?”
L’altro giorno sono stati dai miei: “Patrick, andate dai nonni, adesso, sei contento?”
“Sì!!!” mi urla senza gridare. Il solito punto esclamativo composto, ristretto come una camicia dopo un lavaggio troppo caldo. Sono io che esubero, lo inondo, restringo i miei figli bambini. Gli ridono gli occhi, chiari, esclamativi, quelli sì. Poi mi cerca spegnendoli un po’, con apprensione: “E tu stai qui da sola?”
Non posso dirgli che non è così male, che quasi non vedevo l’ora, perché sbriciolerei quella sua bocca tenue, socchiusa e dolcissima, ma soprattutto perché non è così: non prendo troppo spazio, io. Ho bisogno di uno spazio Assoluto e a cadenze regolari, ma mi basta piccolo, mi ci stringo dentro, mi ci accovaccio con i miei scarabocchi. Solo nei casi peggiori, nelle giornate impossibili, quelle che a volte sono inevitabili, lo sfinimento li esilia e il sollievo è reale, gratificante, totale.
“La mamma è stanca, deve riposare.”
L’insonnia mi morde senza tregua. Sono arrivata a cinque ore scarse, non consecutive, di notte. Di giorno il sonnellino cui mi costringe la spossatezza è difficile, disturbato, breve.
E così lascio che si buchi il fine settimana, come un palloncino, che si sgonfi. Loro escono, il parco di Cesano, quello con la rete da arrampicarsi, le fontane, la sabbia. Quello dei miei giri con Sarah. Il mio parco. Loro.
È l’Evento, la cosa speciale. Il weekend, è speciale, perché siamo noi, noi quattro. Perché il tempo è aperto, docile, non chiuso come un ombrello, una folata che scappa, un orologio che insegue. Perché c’è tutto o niente, il cerchio mobile dell’intimità.
Essere così maledettamente esausta e spossata è come stare a un banchetto con il mal di denti.
Resto qui, la porta chiusa, il cubo noioso di questa stanza, nel mio letto-zattera che non mi porta in salvo, a cercare il sonno che non viene. Le campane della domenica che impongono le ore e i riti degli altri. I cani dei vicini che latrano di tanto in tanto. I piedi di quello di sopra. I passi sulle scale, fuori. Rumori di metallo, le porte delle cantine, sotto, o forse le pentole di qualcuno, i primi approcci alla cucina per il pranzo. Vive il condominio, respira e parla.
Io taccio qui, sola e costretta all’esilio, come una molla compressa: l’energia mentale, la voglia, la passione per le cose, schiacciate in un pugno che non si apre. Il cuore sbeccato.
Penso se mi mettessero a riposo, inchiodata a questa stanza, a un orizzonte statico che spegne la magia della gravidanza e prova i nervi. Che separa la vita dei figli dalla mia. Mio marito da me. La vita da Maddalena. Che la lascia fuori, strappa lungo il tratteggio di un letto obbligato tutte le cose che erano ordinarie.
Penso alle donne malate, quelle costrette davvero all’immobilità, che allungano il braccio sul crapetto del figlio. Il carosello della sua testolina intorno al letto per raggiungere la madre.
Sono così gelosa del mio tempo. Così gelosa dei miei figli. Gelosa della mia gravidanza. Gelosa di tutto ciò che, in fondo, non mi appartiene.
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Costretta a un letto-zattera che non mi porta in salvo
Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!
Commenti 1
è pura poesia, amica mia! 🙂