È vero: sono caduta da ragazza. Sugli sci (anzi al loro fianco, mentre quelli se la ridevano come fosse colpa mia), inforcata malamente da una compagna di oratorio che adesso non nomino per non provocarle sensi di colpa tardivi. E ci ho lasciato le chiappe.
Tuttora, a distanza di un numero di anni che mi guardo bene dal conteggiare e ancor meglio dal riportarvi, il mio osso sacro presenta ignote protuberanze, nemmeno simmetriche.
Durante i viaggi in auto di norma dopo un paio d’ore l’insofferenza del mio deretano comincia a diventare piacevole quanto un figlio che da tergo domanda incessante “quando siamo arrivati?”
E se sto svaccata sul divano con le gambe su, mi sembra di avere un punteruolo nel culo, che se potessi me lo sviterei.
Però – e questo va detto – è solo in questi ultimi guarda caso 11 mesi che le sofferenze sono arrivate a prendere suono, a vocalizzarsi in urla da Tarzan per minuscoli movimenti, un cereale da raccogliere a terra (evento assai frequente), un piegamento di lato a imboccare la piccola, un inchino solenne a baciare i grandi per la buonanotte. Il tutto con un brivido di entusiasmo, del tipo: “Questa volta sono sicura che qualcosa non va.” Ossia dal parto dell’ultima Leboutina. Il che nulla ha di coincidenziale, vista la difficoltà dello stesso, mal (e poco) coadiuvato da ostetriche incompetenti di cui sarà mia premura fare nome e cognome alla prima occasione (al contrario della compagna di cui sopra). E dire che la piccola non si degnava di scendere. E dire che gli altri due eran scivolati fuori che quasi mi meritavo i complimenti. E dire che lo sapevo che qualcosa non andava, e gliel’ho anche detto, alle giovani levatrici. Ma quelle niente: ignoranza, perseveranza, noncuranza. Tutte le belle cose in “anza”. E la Leboutina mi nasce, a fatica, occipito posteriore: vuoi che magari mi ha spezzato lei il fondoschiena?
Bando alle polemiche a scoppio ritardato, ho sopportato fin troppo i dolori. Il marito che sentendomi contorcere mi suggerisce: “Ma tu c’hai il sacro rotto.” E così stamane smobilito quella santa donna di mia madre (sacra lei, questo sì), per venire a curarmi la piccola nelle sole ore in cui potrebbe cavarsela da sola, cioè quelle del pisolo mattutino. Scopo dell’ingaggio non è certo una gita dal parrucchiere o qualsivoglia attività indispensabile ma a sfondo estetico. Target della mia libera uscita l’ambulatorio a pochi metri di qui. Causale dello spostamento: RX rachide-sacro. Insomma una lastra al sedere.
Non sono preoccupata, caso vuole che proprio in questi ultimi giorni l’ossetto si sia imbonito. Il vero timore, la domanda che mi assilla mentre raggiungo il centro, salgo le scale, supero la porta scorrevole e mi affaccio alla guardiola dell’accettazione… è: ma mi faranno togliere le mutande?
Saldo il ticket, sorrido impavida, salgo un altro paio di rampette godendomi quelli che forse saranno gli ultimi attimi d’intimità con gli slip: sopra, la sala d’attesa, è un quadrato scarno con un tavolino rotondo in formica che troneggia sul linoleum del pavimento come un fungo, le pareti tinteggiate di un grigio incerto e lucido quanto basta per ricordarti che sei in un presidio ospedaliero, una fila timida di sedie vuote, plastica bianca su gambe metalliche, coordinate con l’attaccapanni silver estratto dagli stessi anni settanta. Mi siedo in pena e in braccio a un anticipo e una desolazione che non mi aiutano a distrarmi. D’altronde non ho nemmeno un libro, un cazzillo qualunque. Non c’è neanche un dépliant sul tavolino. Nulla. Trascorro i miei venti minuti leggendo una quarantina di volte: “Se siete incinte scappate”, espresso in termini più consoni al luogo. Poi finalmente mi chiamano. Lui è un dottoretto con gli occhiali, che avanza una battuta non appena gli dico “413”, il numero segnato sulla mia ricevuta e assegnatomi come paziente. Immagino sia improponibile aspettarsi un radiologo donna. Mi fa firmare la dichiarazione di non essere gravida, vado spedita, voglio abbreviare il supplizio. E finalmente ci siamo: “Entri, si spoglia qui, poi viene.”
Che detta così, non suona granché.
Neanche il tempo di ribattere, che puntualizza: “Tiene gli slip e la maglietta.”
Sia lodato Iddio. Tanto sudore per nulla.
Finalmente sollevata procedo, svesto quello che serve, mi sdraio sul tavolo rigido resistendo a fatica. Che vuoi che sia: l’importante è che sono vestita.
Ed è fatta: fortuna che non c’avevo gli slip con le borchie, ché i metalli te li fan levare.
“Allora, cosa si vede?” mi abbandono alla più genuina delle curiosità.
“Si vedono delle belle foto, che vanno interpretate dal radiologo.”
Certo. Chiaro. E quindi, mi scusi, ma lei… chi caspita è?
Quel che resta del parto
Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!