Arrendersi, ammorbidirsi, anziché dibattersi.
La quarantena ha già preso il mio spazio: non voglio darle anche il mio tempo.
Mi sveglio pensando a questo.
Eppure abbiamo anche responsabilità.
Fin qui siamo stati responsabili, di una responsabilità imposta – nemmeno scelta – con il solo obiettivo di ridurre esposizione e contagi. Ma chi decide che devo essere responsabile verso me stessa, i miei genitori e ancor di più verso anziani che non conosco, e non verso i miei figli?
Responsabile di chi?
Allora ci sono giorni che nonostante i migliori propositi di staccare apro i social e leggo, apro i link, vedo che qualcosa esiste, di alternativo, che
la scatola più dura e angusta non è quella dei muri di casa, ma quella mentale,
la gabbia di chi non mette in discussione nulla e procede per inerzia, per postulati autoimposti. Arrivo a sera e mi domando se ho fatto bene, se ho fatto abbastanza. Con quello che posso: le parole. Dicono che contano i fatti, ma io non ho potere se non quello della comunicazione. Ho scritto alla Regione, aspetto risposta. Scrivo. Perché non so farne a meno. Poi mi domando se sono stata presente coi figli. Forse dovrei giocare con loro più a lungo, e smettere di impegnare tanto tempo nelle battaglie. Va bene, allora oggi chiudo tutto, oggi faccio la mamma esatta, quella che cucina, fa le cacce al tesoro, legge sul lettone e inventa corride. Va bene, per un giorno fa bene anche a me. Dibattermi per farmi sentire mi risucchia, mi toglie a volte più energie di quante me ne dia, penso «pubblico questo e poi basta, poi starò meglio»:
cerco un sollievo che non viene mai, perché il sollievo va cercato dentro, è in sé che va reperito quel gancio di an-coraggio.
Perché posto un contenuto e non è vero che finisce lì. Poi saranno commenti, dibattiti. Altre riflessioni, scriverò altre cose, per altre mi affannerò. E il traguardo del sollievo si sposta sempre un po’ più in là.
Bisogna accettare che la scomodità che sentiamo è inevitabile.
Chi la mette nel fare, chi nel dire, chi nel nulla. Si riesce, in questi giorni, a stare scomodi anche sdraiati su un divano. Scomodi anche in sé stessi.
Le battaglie che facciamo fuori rispondono al senso di responsabilità ma anche al bisogno di controllo, di sentire che abbiamo ancora una voce, un potere. Che esistiamo. È umano.
Siamo mosche impazzite. È umano anche questo.
Qualcuno mi ha scritto in un commento: «Pensa a vivere nel qui e ora», rivendicando l’inutilità di cercare un tempo, un termine, una scadenza. Non dannatevi se non ne siete capaci. Non dannatevi se siete persi e bisognosi di dati e di date, di termini.
Vivere il qui e ora è la pillola che solo i più grandi maestri spirituali sanno usare.
Gli altri la ingoiano come fuga.