Il figlio è il campo che semini, e che non ti appartiene.
L’amore è la distanza esatta
Ama l’attaccamento perché amandolo si scioglie. Ama il distacco, perché vedendolo lo riduci.
Ama perché amando osservi e ciò che era addosso, diventa a una giusta distanza. E ciò che era lontano, rifuggito, è portato vicino.
L’amore è la distanza esatta.
L’intimità è saltare insieme nell’ignoto
L’abitudine, di vedersi nudi, in pigiama, di sapere quanti cucchiai di zucchero in un caffè, quale dolce preferito, come ti siedi, come cammini: non è intimità. A volte, è fuga da essa.
Si sta dove sai che si tocca, come in mare, fai l’Adriatico del rapporto, puoi andare per lungi passi affondati e intanto hai sempre il culo asciutto.
Alte, le rose
Tutto quel furore di luci e quella pioggia scatenata erano per me. Per chi aveva voglia di guardarlo e di lasciarsi traversare da questa vita così estrema che non lo sai: se è spavento, o stupore.
Qui e ora
Bisogna accettare che la scomodità che sentiamo è inevitabile. Chi la mette nel fare, chi nel dire, chi nel nulla. Si riesce, in questi giorni, a stare scomodi anche sdraiati su un divano. Scomodi anche in sé stessi. Le battaglie che facciamo fuori rispondono al senso di responsabilità ma anche al bisogno di controllo, di sentire che abbiamo ancora una voce, un potere. Che esistiamo. È umano. Siamo mosche impazzite. È umano anche questo
Per non averci aspettato
Non riesco a perdonare la primavera per non averci aspettato.
Non so quale sia il dolore maggiore: se la primavera senza noi, quello che perdiamo fuori, o il dolore di stare chiusi. O la preoccupazione per i figli e quello che patiscono, o tutta questa sciagura, le vite che se ne vanno, la colpa di non averle benedette, di averle piante poco oppure troppo.
E questo è già volare
Dai alla vita e alle sciagure il nome che più ti salva il cuore. Non il culo. Il cuore. Ma non perdere il resto di lei, della vita, e di lui, del cuore, a cercare senso a tutto, perché alla fine avrai fatto milioni di domande e ottenuto forse una o due risposte. Ma la tua vita, intanto, chi la vive?
Bisogna che i figli sappiano che sono al sicuro
Bisogna che i figli sappiano che quando il viso scende senza rimedio, quando entrano in studio e interrompono vistosamente un mio ritiro in me stessa, e poi vedono che gli occhi sono appassiti… Be’, bisogna che sappiano che sono al sicuro
Provo a togliere
Provo a togliere i «ma allora» e i «dovrei»
come si taglia un bordo ad appunti non miei.
Provo a smettere di essere un ruolo
che è come un palo puntato al suolo…
Oltre il fitto del bosco
Da qualche parte, nel fitto del bosco e delle mani che muovi incerta, c’è una risposta
Buongiorno a me
Vorrei che mi svegliasse lui, quel cuore matto, prendesse l’orologio esatto del perfezionismo, e levasse le pile. Oppure gli bisbigliasse fai silenzio, qui c’è una donna che sta venendo al mondo. E lo disarmasse.
Perché ogni mattino è venire al mondo.
Di chi devi essere?
Fatti una foto senza figli.
Non perché ti eri appena cambiata taglio di capelli. Non perché stringi la mano del tuo uomo. Non perché ti hanno appena promossa al lavoro, hai presentato un progetto, hai pubblicato un libro.
Quale ottima ragione ti serve, donna, per farti una foto?
Di chi devi essere? Di una laurea, di un uomo, di un figlio, di una casa nuova, di una vetta, di un’isola tropicale, di un Mojito, di cosa o chi? A chi devi appartenere?
Non dire chi se ne frega
Non dire «pazienza, chi se ne frega».
Se avessi pazienza, saresti leggera. Invece ci stai pensando ancora.
Se non ti fregasse, saresti già andata oltre
Madri da meno
Oggi mi sento una madre da meno.
Non ho passato tempo con loro, spesso l’ho fatto gridando: mi sono raccontata che i figli erano nervosi e che per questo dovevo tirare le briglie.
Mi sono detta che c’era molto da fare
Troppo
Non sono solo le fragilità e i difetti, che fatichiamo a integrare: il «troppo» è ancora più difficile da integrare, perché non suscita compassione negli altri, e quindi nemmeno in noi. Non siamo abituati a perdonare e accogliere il troppo. Siamo abituati, fin da piccoli, a confortare e rassicurare per il «poco»
Se è uno spigolo. O il cappello d’un mago
Ci sono persone che si sono viste la barca rovesciata. Così: una grande onda, mica che l’avessero vista prima. Quando le incontri, anni dopo, ti confessano di aver amato quella grande tempesta: se non c’è una crisi tendi sempre alla permanenza
Dove vanno a cadere le stelle
Dove cadono, le stelle, quando cadono?
Dove vanno a depositare il loro luccichio?
Forse c’è un posto dimenticato, oltre la schiena della collina oltre i campi segnati dalla stortura d’uno spaventapasseri.
Forse se segui la strada di ciottoli e smetti le spalle voltate all’indietro.
Se lasci una riga di pianto, la scia di quello che è stato.
Non sarà mai
Non sarà mai una spiegazione. Un’operazione matematica. L’evidenza di una proprietà transitiva.
La forza decisionale.
Il vento a favore.
Il favore degli altri.
Sarah piange
Ma Sarah piange. Quella è una professoressa delle medie, mi ha detto. Esigente, dura sotto i capelli, rigidi pure quelli.
Talvolta la riprende perché la vede che muove le gambe. Perché non sa che Sarah piange ancora
Immagino di andarmene
Mi viene voglia di un sogno folle, di andare oltre i buongiorno composti alle maestre, ai righi sempre uguali suonati dalle orchestre.
I bambini hanno fretta
Gli occhi aspettano. I suoi, dico: che io dia loro la benedizione d’un complimento. Per poi schiamazzare di scintille.
– È per farti perdonare?
Sì, dice.
E a quel punto le pupille le saltano come bottoni.
Il bambino che giocava con niente
Solo che il ragazzetto ha proprio preso gusto, e adesso la sua polvere se ne va oltre la siepe, arriva nebulizzata sui genitori ancora in attesa, quelli obbedienti che il nastro non lo valicano.
– Ehi, però, non sollevare la polvere.
Glielo dico così. Con un bel punto fermo, senza esclamazioni. Però robusta.
Quello si ferma, si siede. Non osa più niente.
Il punto fermo
La vera positività non è «sperare». Perché quando poi le speranze si spezzano, se le avevi dentro, ti squartano, tagliano, uccidono. E se le avevi fuori, allora non le avevi.
Faccio rima con te
Biascico rime per tutto il viale
mi piace guardare come il tuo viso sale
su per la mano che stringe la mia
fino ai miei occhi voliamo via.
Però la sera
Quando ritornano i fiati dei figli, imburri una fetta di pane e scosti ciocche di capelli: lascia stare i tuoi nodi.
Ritorna come sempre è stato in inutili cose indispensabili
L’oste
È uno di quegli uomini che diresti immortali. Uno di quelli che non te lo sai immaginare giovane, l’hai sempre visto così, non sai nemmeno se sotto il suo Salve ha ancora qualche dente
Imparare la soglia
Sono una che quando si mette in una cosa ci entra dentro tutta intera. Puoi chiamarla determinazione, concentrazione. Però se mi cerchi fuori di lì non mi trovi.
Devo imparare la soglia.
Entrare nei miei lavori e poi uscire, fluire. Dentro e fuori. Con piccoli spazi di adattamento, come la pupilla che si restringe passando dal buio alla luce.
Quando un bastone incontra un bambino
Prima è un termometro sotto l’ascella, poi, per saltare, un’asticella.
Rincorre la mamma per farle una puntura, ma quella è veloce, scappa: ha paura.
Insegue tombini in un’altra invenzione,
ogni ringhiera suona la sua canzone.
La musica ti fa una malattia buona
La musica è come l’inconscio: tu non lo sai, lei passa e si fa un viaggio in parallelo, i cunicoli come le formiche. Ti fa una malattia buona. E, quando ritorna, scopri tutte le tegole dei tetti, tutte le pietre sul selciato e gli angoli che aveva disposto. È un architetto creativo e laborioso.
Quello che so
Io conosco questo, di voi: i nasi molli, le risse. Ma anche i baci. I “mamma!” estenuanti, ma anche le vostre verità. I verbi sbagliati, l’esattezza del vostro amore.
Questo so, di voi. Di me.
Conoscevo un mucchio di gente
A me bastava poco. Di molte non sai nemmeno il nome. Però venivo da mattine in coppia con un bebè, passi sul corridoio avanti e indietro, un pc. Al massimo uno di quei bei giri fuori col passeggino, che mi riempivano, mi risagomavano l’animo, mi alzavano anche gli zigomi. Mi facevano il lifting al cuore. La gente no, però, di gente ne ho sempre vista poca. Di amici non ne ho mai avuti.
Sempre
Alcune di noi erano già buone alla meraviglia. Io sono una di queste, avrei detto. Ma non è mica vero.
Ché formiche ne ho viste a migliaia, nella mia vita. Poi uno di voi ne ha puntata una: una soltanto. E io ho capito cos’era una formica.
Buonanotte a chi
Buonanotte alle case che siedono spente
Alle cucine alle camomille accese nelle notti lente.
Il contagio
Quella vecchia si siede accanto a me, la sua giacca carezza la mia. Non ho pensato a quanti anni ha. Io non penso mai agli anni, alle bollette che ognuno deve alla vita. Ho interrogato la sua gioia. Perché un labbro saliva sulla guancia, da un lato solo. E quel lato era il mio
Ma intanto il sole
È arrivato il sole. Quando entra me ne accorgo anche se gli do le spalle. Senza tanti cerimoniali lui si prende prima un trapezio minuto e smagrito sulla parete a sinistra, inghirlandato dai riccioli impressi dalle inferriate alla finestra. Poi si allarga, come un’idea che non accetta più di stare compressa in un angolo del cervello.
Arriva il sole, il mio saggio cane di compagnia
Ogni mattina
La trovi ogni mattina, ti basta che alzi gli occhi dal poggiolo di uno schermo, dal tuo sfogliare carte mai riordinate. Lei ce l’ha, il suo umile ordine cosmico: sta tutto in quei giri di ricognizione alla ricerca di un gatto che, scommetto, perde di proposito.
Il tempo delle consegne
Il tempo ha ricominciato.
– Che fai?
– Semino.
– Cosa?
– Giorni.
Lo credevo in qualche campo assolato del sud. Va’ che qui cresce ben poco, rimarrai deluso.
– E chi te lo dice? Chi sei?
– Sono la padrona di questo campo, Signore.
Non lo sa. Lui va dove lo chiamano. Passa per le consegne. Un’ora lenta alle madri che hanno appena partorito, una ancora più lenta a quegli anziani
Il ragazzino
Con quella cosa qui, di tuffarsi senza più argini e illuminarsi tutto quanto, ché anche i capelli schiariscono, io non l’avevo più visto.
Barbecue
Grigliata. Per i più cool: BBQ.
Lo provo oggi e non lo faccio mai più.
Non fate finta che a voi riesce così, mille tizzoni ardenti con un click di fiammella, e aprite la sagra della salamella.
Il cavalcavia
Stai lì, ti schiacci in dieci minuti. Sono sfollati i genitori, si sono presi i figli. Il punto di ristoro che avevo chiesto. Non me l’aspettavo così. Fa un po’ come quei bei paesaggi rurali, le spianate tra i campi, le risaie. E poi ci montano sopra un cavalcavia. Sarah, questa situazione: è il mio cavalcavia.
Il cono d’ombra
E certo. Perché i malinconici intristiscono. I bronciosi stufano. I ridaioli stuccano. Be’, anche i sempre-felici a me mi stanno un po’ sui cojoni. Così, per dire. Ma vi capita mai di aver perso le chiavi? Sì, insomma, che tutti hanno la chiave in mano, la serratura esatta, la destinazione. E voi c’avete solo la FACCIA-DA-BOH.
La caffetteria
Alta, secca, i capelli a carré, ma proprio a piombo, che non starnazzano nemmeno se ci starnutisci sopra. Certe persone lo vedi da subito che sono il copia incolla del portamento che si portano appresso. Si accomoda alla cassa della caffetteria, la sento che nomina una festa di scuola, mi aggancio perché a me quelle troppo imbastite mi fan venire la voglia di scucirgli l’orlo per dispetto.
Le cose a metà
È un buon segno, quando lascio le cose a metà.
Se non c’è il vago tremore della foga, se le mani sono salde e danzanti, è un buon segno.
È il passo cadenzato dal desiderio. E non importa se sfugge alla logica, né se pare l’inerzia incantata di un bambino. Anzi, a me piace.
È il salto giocoso della curiosità. E non importa se poi non scopro chissà cosa: riscopro, almeno, la mia ingenuità.
Non so posare una mano sulla vita
Forse qualcuno aveva ragione, non so posare una mano sulla vita come la testa di un bambino, carezzarla e lasciare che vada.
Come ai cancelli di scuola
Come quei fusti infiniti di sequoia
A volte sospetto di essere il cristallo. Tu
quella solida che se anche piange poi si rialza tutta intera
in un arcobaleno.
La prima lucertola sul muro
Fuori è rimasto un ricordo invernale nei capitomboli delle foglie arricciate, nella fanghiglia o nella terra dove lasciano corse i bambini. Nelle teste glabre degli alberi leggi, se vuoi, l’inconsistenza, l’incertezza di una stagione, la nostra stessa contraddizione. Di pieni e di vuoti, le prime bevute alle fontane e poi un tè caldo nelle caffetterie, le prime maglie sudate e madri che implorano rivestiti! Le prime righe incandescenti dalle persiane, i primi sorsi di sole serale. Ma anche le luci per la via, durante pentole sul fuoco.
Canzone di una madre
Chissà chi sei ora
Domani chi sarai
Ho sbagliato mille volte oggi
Sono una madre che riparte da zero.
Filastrocca del mattino
Il mattino è un gatto stanco
le luci accese nella casa accanto
le persiane ancora accostate, come nei giorni di sole d’estate.
La befana
La befana vien di notte
e dei grandi (pare) se ne fotte.
Di dolciumi riempie calze
ma si ruba le vacanze.
Vorrei per te un amore di carta
Vorrei per te un amore di carta
Da poter ritagliare con mani di sarta.
Lascerei ai bordi, spingerei fuori
Ogni isteria dei miei malumori.
Scriverei dentro, in grandi parole
Cento parole
È oltremodo dolce (se non comodo e veloce) quel tuo pappagallare.
Quel tuo ripetere, di ogni frase o parola, solo il finale:
tanto mi pare d’aver sempre ragione,
ché dico vieni, rispondi vieni,
ché dico nanna e rispondi nanna (magari ci aggiungi il no, ma fa lo stesso).
Se dico bene rispondi bene
Digressione
Essere incinta: piangere tre volte in cinque minuti per una canzone. Per giunta di Britney Spears.
Buonanotte
Buonanotte in questa notte
che la città rotola giù come un sasso da una rupe.
Voi in cima voi a valle
Voi le stelle.
Buonanotte in questa notte che sono nati Giada e Federico…
Digressione
Non c’è niente di peggio per una donna che ingrassa, che avere un marito che dimagrisce.