Si sale fingendo che siano due passi.
Non prima di uno scotto in macchina, nel quale mi prodigo in rime salva nausea che la petite sembra apprezzare particolarmente. Del genere: «Se io faccio la rima, noi arriviamo prima, continuo a parlare per non vomitare».
Dietro ridono in tre, cosa assai rara. Per un istante sigilliamo quella famiglia da pubblicità. Ed è un bene, Madda fanne scorta, ché poi sul sentiero avviene la frammentazione. Tutti vorrebbero darmi la mano: Patrick perché (lo scopro solo adesso) ne ha ancora – banalmente – bisogno, ma da undicenne alcune necessità affettive vanno riservate ai luoghi remoti: «Mamma qui puoi darmi la mano perché non ci vede nessuno». Amen.
Sarah perché ha più sbalzi umorali di una donna in menopausa e dunque per arrivare fin qui abbiamo guadato: urla da «no, io non vengo!», nelle quali rintraccio un’innata somiglianza con mia sorella, sua zia. Notoriamente refrattaria alle gite in montagna nonché di pessimo umore al mattino: «Hmm, cazzo vuoi?». Poi crolli nervosi, quando l’astio cede al dolore sottostante e scopre radici fragili e intanto tenaci: «Mamma…» Questa fase è accompagnata dalla nota litania che sono certa ogni madre sperimenti in diverse ore del giorno e occhi di prole. Infine una ventata di regressione, allora la voce le scende in petto con quel cantilenare che le leva metà dei suoi anni, riproducendo un bebè. Mi ha detto una cosa intelligente, ed è farina del suo sacco: «Devi fare un secchio di quando sono gentile e felice, e poi quando divento antipatica me lo butti in faccia».
Vale la pena provarci.
Comunque vuole la mia mano perché è in quella fase-radici, e si avvinghia alla sua mamma come edera.
Isabelle dalla fase «bebè-voglio te» non è mai uscita. Logicamente le mie mani sono solo due. La mia voglia di stringermi in un sentiero con un figlio incollato è perfino zero.
E così pian piano lascio indietro le donnine senza dare nell’occhio, qua e là richiamo la loro attenzione su una rigogliosa fioritura, lancio un «sì sono qui, ti aspetto…» e poi stiro il passo col primogenito (che nel frattempo ha dimenticato la necessità affettiva della mano). E via.
Il resto è noi due. Patrick e io.
I sensi di colpa per aver lasciato il marito a scapicollarsi con le due pigre solleticano la coscienza, ma poi c’è tutto sto ben di Dio di paesaggio e l’egoismo della passeggiata ha la meglio. Per mitigarli, ad ogni modo, raccatto un maggiolino, di cui so essere ghiotte le mie bambine, lo avviluppo in una foglia e lo infilo in tasca: moriranno dalla gioia, quando arrivate al rifugio glielo darò come ricompensa. Un piccolo maggiolino iridescente tutto per loro, da accudire, carezzare, sentir vivere sulla mano.
E siamo su. Patrick e io.
Fa uno strano effetto trovare gruppi di gente e la catena del Bianco, lo spopolare del sole sulle ombre e le nubi, il caldo che acceca. E intanto scorgere qualcuno bardato sul naso di quel solito accessorio che ormai veste le vite. E udire sempre le stesse parole: «Mascherina», «terapia intensiva». Perfino qui. Non salva l’altitudine, non salva il cielo, non salva la natura ignara che grida i suoi inni. La voce stanca e rappresa dell’uomo ronza ancora come mosca intorno ai soliti dibattiti. Mascherine volano via da un libro rimasto aperto su un tavolo, all’intero del rifugio non si può mangiare, e flaconi di gel addobbano ogni parete interna ed esterna. Devi infilare anche tu la tua se vuoi andare a pisciare o a ordinare un caffè che poi consumerai rigorosamente fuori.
Due bimbi parlano ai walkie talkie a un metro uno dall’altro, si dicono cose che ascoltano prima dal vivo che trasmesse. Una bambina sdraia il viso sul tavolo intiepidito dal sole, la mascherina a fiori anche se avrà a malapena cinque anni e siamo all’aperto. Qualcuno non la toglie nemmeno qui fuori, ci si schiva, noi sediamo in un angolo riparato dal vento, a ridosso del rifugio e accanto a un bidone. Allora ogni persona che deve buttare qualcosa la vedi che chiede scusa o permesso. A uno ho dovuto dire «prego, non è mica mio, il bidone. Nemmeno il rifugio». Abbiamo sorriso.
C’è la stessa liturgia, quassù. Chi non ha la mascherina sulla bocca ce l’ha sul collo, attenta. Oppure dondola impercettibile sul gomito. Non puoi dimenticare. Percorsi tracciati di entrata e uscita dal piccolo edificio di pietra che chissà quante ne ha viste ma questa mai. Cartelli, raccomandazioni. Cautele.
«Sanificare» è una parola che ormai non sappiamo più perdere. Ci fa paura vivere senza. Il terzo comandamento, sospetto, diventa: «Ricordati di sanificare le feste».
E allora rido: «Pensa che smacco, accorgersi che il corona fa come gli acari, che sopra i 1000 metri non sopravvive». E noi tutti obbedienti alla nuova religione imposta da chi. Da cuori come scodelle, che hai sempre paura che versino fuori cosa. Tienili fermi, tienili stretti al petto. Stai attento, non inciampare, guarda dove cammini.
E poi arrivano: lui e le donnine. Mezz’ora più tardi.
«Com’è andata?»
Lui sorride perché è sempre forte, quando si tratta di sostenere gli zaini delle sfide, qualsiasi sfida: «Diciamo che è stato… faticoso».
Isabelle ha implorato «mamma» per venti minuti, ma io ero già troppo avanti per sentirla. Sarah arriva accasciata e rovescia non più di due parole: «Mai più».
Vorrei prometterle che non la sottoporremo più all’affronto di un’ora di salita, ma a nove anni è impensabile che io la lasci a casa mentre noi andiamo in giro per mezza giornata. Ed è impensabile che io non vada in giro per mezza giornata. Traete voi le conclusioni.
In pratica ci troviamo con due genitori e un figlio montanari e due donnine vincolate a incredibile inerzia al passo e non congenita acquaticità. Qualunque sarà la scelta delle vacanze, avrai da lottare a da passare sopra qualche cadavere.
Comunque un piglio di luce scocca anche in quei quattro occhietti dissidenti, quando l’impazienza li cavalca schiudendo le dita: «Mamma, guarda! Abbiamo preso quattro maggiolini!»