È ENTRATO IN CLASSE A FATICA, NON VOLEVA MOSTRARE QUEI SUOI OCCHI CHIARI PERSI NELLA RAGGERA ROSSA DI MILLE CAPILLARI SPEZZATI DA UN PIANTO SCONSOLATO.
Mi ricordo io, una volta che ho pianto a scuola. Solo che ero più grande.
Avevo preso troppo sole, vanità ingenua, nessuno mi aveva obbligata alle creme solari: a tremila metri il sole di Pasqua percuote come fosse arrabbiato. Ma a me piaceva: mi piaceva quella luce irresistibile, il bianco assoluto della neve e dei ghiacci. Mi piaceva la pelle che iniziava a tirare: “Fai così” dico a mio fratello spingendo il naso col dito. Bruciava, voleva dire che mi stavo arrossendo. Sarei tornata giù, coi tre tronchi di impianti, e poi in città, e infine a scuola, abbronzatissima.
Quella mattina eravamo tutte in fila, nella palestra per l’ora di educazione fisica: venticinque visi d’avorio, qualcuna già un filo di matita agli occhi. E un oblò bruciato, gonfio, lucido che spiccava tra loro come un coriandolo colorato quando il carnevale è già finito. Da quell’oblò, due occhi fatti piccoli dal gonfiore.
“Troppe lampade?” chiedeva qualcuna. Altre seguivano in coro. Uno sciame di voci senza colpa, restavo lì inchiodata, bruciavo fuori e bruciavo dentro. Nessuna crema alla camomilla, nessuna lozione calmante, nessun lenitivo su quella pelle aveva potuto alcunché.
Le lacrime scendono facili e rapide: è lo scherzo di gravità dato dalla discesa delle guance.
Lo so io cos’ha, tenta il conforto una compagna. Pensa che ho il ciclo, qualche ormone incazzato.
Mi sentivo come nei sogni in cui sei nuda tra la folla.
Forse è così che si sente Patrick.
È entrato in classe a fatica, non voleva mostrare quei suoi occhi chiari persi nella raggera rossa di mille capillari spezzati da un pianto sconsolato.
È entrato in classe con la sua felpetta grigia, mezzo colletto nero di grembiule che gli sbuca come una regola cui non si sfugge. Voleva mettere la giacca a vento. Storia vecchia, da settimane lottiamo. Storia sciocca: i bambini s’impuntano per inezie. Venti gradi di mattinata, questa volta non abbiamo demorso: “No, la giacca basta!”
Siamo passati dal tentativo di persuasione al tono fermo, poi increspato, e infine arcigno. Ci siamo fatti valere. Perché una giacca a vento non puoi mettertela, a maggio.
Ha cominciato a piangere, e mentre piangeva noi galoppavamo, avanti e indietro, tra la rabbia e la pena. Dice che le maestre lo sgridano, se non porta la giacca.
Noi siamo qui, nella sua vita, nella sua testa, nella sua storia: arriviamo appena dietro i suoi occhi, appena dietro ai cancelli. Più in là, è un piccolo uomo nel mondo.
Parlerò con altri genitori, parlerò con le maestre. Uscirà qualcosa, non uscirà niente.
Penso al suo corpo tutto teso in una disperazione che ai grandi sembra follia. A quelle lacrime che si nutrono di un dolore incomprensibile e della loro stessa vergogna. A quella giacca capace, in così poco, di stringere la mattina di una famiglia intera.