Il pomeriggio che Mathias ha recuperato il pallone e si appresta a giocare una partita con Patrick, la bandiera è stesa al suolo. Nessuno ha notato che il vaso è scomparso. Ho guardato quello stendardo a terra, mi sono chiesta chi l’avesse adagiato con tanta precisione. Qualche ora più tardi le voci dei miei risuonano ferme, lì fuori. Intorno al tavolino che ha smesso di traballare anche lui, quasi: “Dovevi dirlo. È pericoloso. Dovevi dirlo.”
Soggezione
Deve averti fatto proprio paura se adesso te ne stai lì senza colpo ferire.
Allineata ai tuoi fratelli come giocatori che accettano in silenzio di restare in panchina. D’altronde siamo stati fortunati, amore mio: devi sapere che il supermercato non è un parco giochi.
Prima le evoluzioni acrobatiche sul carrello: io rido, la rapidità con cui passi dal vano grande al seggiolino, poi ti ergi in piedi affidandoti al tuo equilibrio precario, ti aggiusti di traverso, le gambe a penzoloni (per quel poco che possono spuntare fuori, diciamo a malapena le caviglie e le tue finte Clarks testa di moro)
Storia di pianti e di giacche a vento
Mi ricordo io, una volta che ho pianto a scuola. Solo che ero più grande.
Avevo preso troppo sole, vanità ingenua, nessuno mi aveva obbligata alle creme solari: a tremila metri il sole di Pasqua percuote come fosse arrabbiato. Ma a me piaceva: mi piaceva quella luce irresistibile, il bianco assoluto della neve e dei ghiacci. Mi piaceva la pelle che iniziava a tirare: “Fai così” dico a mio fratello spingendo il naso col dito…