DEL VISO NON ERA RIMASTO NULLA, ROTTA LA MASCELLA, GONFIO DI SCIAGURA.
DEL CUORE NON ERA RIMASTO NIENTE
La rivedo una sera. Lei dall’altra parte di questo braccio di strada. Cammina. Le cose evolvono. Il tutore al ginocchio è sempre quello, però ha lasciato la sedia a rotelle. Anche l’amica, direi, non è la stessa.
Cammino e non è un ciao, un richiamo. Sono io, tra le due, quella che avanza poco. Quella che i tutori li tiene al cuore e poi tira le cinghie fin su, sul cervello. Controllare la mente, controllare che.
Alcuni giorni, certe persone, vorrebbero dirtelo, senza saperlo: alzati da quella sedia, sei tu, la tua più grande disabilità.
Quel mezzodì il parco era un cratere immobile sotto il crampo del sole. Nessun albero abbastanza grande riusciva nel gioco astuto delle ombre. Isabelle scivolava sui giochi, forse scottandosi un po’. E poi fu quella bambina, com’era alta, per avere quattro anni… Attaccammo in parallelo, le piccole tra loro, io con la ragazza invalida.
– Posso chiederti cos’hai fatto?
– È stato il mio ex.
Scherzai meno male che è «ex».
Ma l’ironia scema subito. E non importa quanto sorridano quegli occhi verdi, le labbra timide. Il viso ha già ripreso la sua plastica espressività.
– Posso chiederti cos’è successo?
Dal basso guarda il mio controluce. Non le dispiace parlarne. Non piange, ha le parole che urlano, dentro, ma non lo sa. Le accomoda ordinate come soprammobili, ci passa la mano.
Lui l’ha picchiata. Le ha sfigurato il viso, s’è rotta non so quante costole, il calcagno.
– Per quattro giorni. Non mangiavo, non parlavo, veniva in bagno con me, mi ha sequestrato il cellulare…
Allora l’amica interviene. Abbiamo tutte braccia che non sappiamo dove mettere, le muoviamo e poi le incrociamo, cerchiamo, con esse, di dirigere un dialogo difficile, poi di custodirci. Ha chiamato tante volte, ma rispondeva lui. Brevi messaggi, sì non posso, adesso non posso, ti chiamo poi. Quella lo capisce che è una sfuggenza insolita. Non se la prende, s’avvita tutta a quella fiducia sacra delle amicizie vere.
Intanto le bambine giocavano sugli attrezzi, nessuna di noi le guarda più, nuotiamo nelle scene che tornano vive per chi ci è morto dentro.
Eppure erano fidanzati da quattro anni. Non era mai successo.
– Sei stata coraggiosa.
Si schermisce, la gamba dentro quel grande tutore nero, le dita del piede si sgranchiscono in movimenti minimi.
Ha atteso quei quattro giorni, incollati alla paura e all’umiliazione, a un diritto di sé che combatte un enigma impossibile da sciogliere. Pazienza, fiducia, sopravvivenza. Sulla soglia del male, nella bocca infernale aspetta il punto di fallo del predatore, l’attimo esatto che l’istinto inventerà qualcosa, a insaputa di entrambi, magari invece ha avuto la lucidità di premeditare la sua liberazione. Quella pianificazione che a lui è mancata, carnefice senza che alcuno di loro sapesse.
E l’attimo viene, la salva in una finestra rimasta aperta, dal secondo piano si cala al primo, salta. Scappa su quel calcagno fratturato.
Del viso non era rimasto nulla, rotta la mascella, gonfio di sciagura.
Del cuore non era rimasto niente.
In questi quaranta gradi al sole la pelle d’oca viaggia sulla pelle, e gli occhi bruciano. L’amica è più scossa di lei, pensa avrei dovuto capirlo, avrei dovuto ascoltare il mio dubbio, che quegli sms erano troppo vaghi. Lo spavento è ancora lì, è una questione epicentrica: siamo sempre colpiti di più quando c’è una vicinanza affettiva, o di genere, di condizione. Forse anche fisica, perché questa storia è di carne, non è la carta di un giornale, non è uno schermo, che racconta.
Invece la ragazza non piange. Non è ancora riuscita a farlo. E come potrebbe? Si è rotta il cuore.
Richiamo mia figlia, raccolgo il mio sgomento. Ci salutammo con quella lode silenziosa che rimane quando due persone s’infrangano dentro. Quella fratellanza nata da odori che si sono contagiati.
E così adesso cammina. Ha lasciato la sedia a rotelle, la vita si riaddestra su una stampella. Mi basterebbe traversare un paio di metri, ma preferisco così: guardarla nel coraggio che le ho riconosciuto. Imparare.