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Maternità

Raccontarsi

PENSA COME SAREBBE SEMPLICE: NON VERGOGNARTI MAI DI QUELLO CHE SENTI

 

Le hanno fatto una corona. Non è il suo compleanno, non è il compleanno di nessuno.
Una corona di cartone, con le facce sopra.

Sarah me lo dice sdraiate sul letto, lei ed io. Io e lei che in un attimo mangiamo chilometri di silenzi. Non credevo fosse così facile. Me l’avessero detto, keep calm and lay down, non mi sarei scaldata tanto, tante volte.

Allora siamo lì, tutte e due dalla stessa parte, però al contrario, mi sono messa nella mia stanza da letto perché forse la Isa qui non mi becca, ho le gambe stanche, le tiro su le appoggio ai cuscini verso la testata. Sotto il capo il vecchio cuscinone dell’allattamento, asini che pascolano sul fondo écru. Le ho detto entra, così, qualche sera fa che le vedevo la sagoma interrompere la lama di luce dove la porta s’appoggia, lei si è messa con me, la testa sullo stesso cuscino gigante di polistirene.

Raccontami qualcosa, dice.

Ripesco dai fondi dell’infanzia. La volta che a Baselga ruppi il vetro di una casupola di legno (sì, mamma, l’ho fatto, non so se lo sai).
“Sai quando senti un colpo forte nel cuore? Hai presente?”
Non sono certa che quel su e giù delicatissimo della sua testa sia un annuire franco.
Le dico che tremavo come una foglia, che quella volta ho avuto proprio paura. E invece finì senza un monito, un castigo, una parola, nulla. Nemmeno ricordo chi o cosa dissero. Ricordo la paura.

Poi c’è lo smalto, lo smalto è una cosa figa da raccontare: prendevo i petali di una rosa, era sempre quell’estate, a Baselga, in Trentino. Non so perché i ricordi si ammassino lì, un vespaio al riparo dal tempo. Li sceglievo di questo colore, rosso vermiglio, come questa parete. Li spezzettavo, leccavo i pezzetti e li incollavo così, sulle unghie, una per una, con la saliva. Poi pedalavo sulla mia bicicletta, avevo sette anni. Cercavo gli sguardi, quando qualcuno passava ero certa che avesse notato. Viaggiavo per qualche metro così, la vanità in quelle piccole unghie finte, le mani aperte sul manubrio, pessima presa e ottima visibilità, destinate a sfiorire una curva dopo l’altra.

E adesso passa un secondo, ho il mio diritto a una pausa, devo centellinare i ricordi, tenere la scorta per le prossime sere. È qui che mi parla della corona che hanno fatto a scuola: un cartoncino verde, visini gialli con le emozioni più forti. Il sorriso della gioia, i denti digrignati della rabbia, occhi sbarrati per la paura, bocca al contrario per la tristezza.

E tu come sei?
Dice che la indossa sempre dalla parte felice.

È un bel sistema per darci parola. Il letto, dico. Ma pure la corona.

Non c’è chi è grande, non c’è chi è piccolo: ogni emozione la stessa dimensione, lo stesso posto d’onore. Vorrei che fosse vero. Vorrei la stessa stabilità, il sorriso sulla testa, come lei. La stessa facilità, girare la corona e dirlo: oggi va così. Pensa come sarebbe semplice: non vergognarti mai di quello che senti.

Qualcosa di nuovo?
Ti avviso io: a caso, quando capita, una vetrina degli ultimi post!

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Commenti 6

  1. giomamma

    la vorrei anch’ io una corona così….e non vorrei preoccuparmi della faccina che scelgo….dolci i momenti di dialogo a due…. ciao Maddalena

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      Maddalena Capra Lebout

      Credo che saremmo in molte a volerla. Purtroppo siamo pieni di sovrastrutture, ma, diciamolo, sono anche necessarie. In ogni caso ammetto che coi miei figli, per quanto piccoli, una corona virtuale la indosso, cioè cerco di non nascondere le emozioni e di spiegargliele, anche quando sono triste o sversa.

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